Relazioni: cosa ci porta a legarci agli altri?
Un recente studio ha mostrato che il bisogno di essere in relazione e in contatto emotivo con gli altri è profondo e rende la mente umana una mente “sociale”. La psicoterapia si basa proprio su questo bisogno ed il cambiamento psicoterapeutico passa attraverso il legame di fiducia tra paziente e psicoterapeuta.
In un giorno lieto della vostra vita scoprite di aver vinto un premio alla lotteria. Senza dubbio accoglierete con eccitazione questo evento, se non con giubilo. Ma se aveste la facoltà di far capitare questa vincita anche ad un vostro amico, scegliereste di farla accadere nello stesso giorno in cui voi avete vinto oppure in un giorno differente? E cosa fareste, invece, se le vostre decisioni riguardassero un evento negativo (una multa, un lutto)?
Precedenti ricerche hanno mostrato che, se si trattasse di immaginare quando vivremmo le possibili esperienze positive o negative della nostra vita, preferiremmo ravvicinare nel tempo le esperienze negative (per esempio concentrandole tutte in un giorno) o, al contrario, distanziare nel tempo quelle piacevoli (distribuendole in più giorni possibili). Come se qualcosa in noi ci portasse a sperare di vivere per meno tempo possibile il dolore e per più tempo possibile il piacere .
Un nuovo studio apparso sulla rivista Social Psychological and Personality Science (Shaddy et al., 2020) ha però appurato che questa tendenza potrebbe svanire se immaginassimo di dover condividere le nostre gioie e dolori con gli altri.
In una prima parte dello studio il team del Prof. Franklin Shaddy (UCLA) ha scoperto, per esempio, che la maggior parte degli studenti selezionati per la ricerca desideravano ricevere assieme ai compagni di squadra (e quindi nel medesimo giorno, anziché in giorni diversi) un messaggio amichevole dall’allenatore del loro club universitario di basket. E, ancora, la maggior parte dei soggetti di ricerca preferiva vivere le esperienze di una vittoria alla lotteria o di una perdita di denaro (per esempio, una tassa da pagare) nello stesso giorno in cui sarebbero potute accadere ai loro amici , e non poco prima o poco dopo di loro.
D’altra parte, i ricercatori hanno scoperto che l’attitudine a condividere con gli altri, nel tempo, successi o sconfitte, perdite o guadagni, era più forte quando si trattava di avere in mente un amico (anziché uno sconosciuto) o una persona con le stesse credenze politiche (piuttosto che non una con idee differenti). Secondo il team di ricerca questo succede perché per le persone condividere con gli amici le esperienze positive o negative aumenta il sentimento di legame sociale tra di loro.
In generale secondo i ricercatori questi risultati avvalorano l’ipotesi per cui nelle persone esista, sul piano psicologico, una “preferenza per l’integrazione”. Immaginiamo di essere più propensi a condividere con le persone a noi vicine (sul piano emotivo o intellettuale) eventi positivi o negativi perché preferiamo sentirci emotivamente più connessi agli altri. A tutti gli effetti, come affermano Shaddy e colleghi, “le persone sentono di perdere piacere nello svolgere attività edoniche da soli, e perciò diventano esitanti ad intraprenderle”.
Il fatto che come esseri umani siamo portati a cercare un contatto emotivo con gli altri grazie a motivazioni potenti, spesso inconsce, e ben radicate nel nostro genoma è cosa da anni appurata dalle scienze psicologiche. Spesso anche quando compiamo scelte apparentemente egoistiche, agisce dentro di noi un qualcosa che ci conduce irrimediabilmente verso gli altri , come per esempio la storia delle nostre relazioni di oggi o di ieri. In questo stesso studio, per esempio, gli studenti non condividevano con gli amici eventi marcatamente positivi, o marcatamente negativi (per esempio una vincita importante oppure una pesante sconfitta). Per gli studiosi questo probabilmente accadeva perché le persone talvolta si sentono colpevoli o timorose di rendere gelosi, arrabbiati o tristi gli amici a cui mostrano i loro successi più importanti. E allo stesso modo potrebbe per loro diventare difficile condividere esperienze dolorose con gli altri nel timore di perderne l’aiuto.
La profondità e la potenza dei sentimenti che ci legano agli altri sono molto rilevanti nella stessa psicoanalisi (e più in generale nella psicoterapia). Il timore di non essere capiti da un genitore, o dalla propria ragazza, o da un caro amico, quando si tratta di voler condividere con loro un successo personale, o la vergogna di mostrarsi deboli e indifesi e di perdere il loro supporto, il loro aiuto, sono sentimenti che spesso ascolto nel mio studio, quando lavoro con i miei pazienti. D’altra parte, succede anche che i pazienti manifestino verso di me, come loro terapeuta, fiducia o sfiducia, colpa, vergogna, gioia, orgoglio, e via dicendo . Questo per dire che i fattori legati alla relazione, alla condivisione, ben presto diventano fondamentali aspetti del lavoro in psicoterapia.
Diverse pubblicazioni hanno in fondo dimostrato che le vicissitudini della relazione di fiducia tra paziente e terapeuta sono molto legate al cambiamento in psicoterapia (Lingiardi et al., 2016), spesso ben più delle sole conoscenze teoriche o delle specifiche capacità tecniche dello psicoterapeuta. E anche quando gli aspetti legati al solo terapeuta (la sua personalità, i suoi studi, le sue qualità umane, etc.) diventano rilevanti nel cambiamento terapeutico, sembra che essi diventino assai più potenti se usati per rendere più sicura la connessione emotiva con il paziente.
Lo studio di Shaddy e colleghi dimostra dunque che già dentro di noi, nella nostra mente, camminiamo o ci fermiamo assieme a un altro. Questo vale ancor di più in una psicoterapia. Il cambiamento terapeutico non può essere svolto dai pazienti nella solitudine della loro mente individuale.
Fonti
Shaddy, F., Tu, Y., Fishbach, A., (2020). Social Hedonic Editing: People Prefer to Experience Events at the Same Time as Others. Social Psychological and Personality Science, 1-8.
Lingiardi V., Holmqvist R., Safran, J. D., (2016) Relational Turn and Psychotherapy Research. Contemporary Psychoanalysis, 52:2, 275-312.
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