Quarantena: effetti psicologici e impatto sulla nostra salute mentale
La quarantena mette a dura prova il nostro equilibrio psicologico. In questo articolo illustrerò il perché secondo una recente ricerca scientifica.
Gli impietosi numeri di questa pandemia non lasciano spazio ad alcun dubbio. Stiamo vivendo un periodo incredibilmente buio della nostra storia. Ogni giorno badiamo a quanto cresca o diminuisca la curva del Covid-19, sperando che di giorno in giorno si riduca il numero di vittime umane fino ad arrivare all'epilogo di questa tragedia. Ma, una volta finita la fase emergenziale, dovremo soltanto fare i conti con la corrente di risacca dei nuovi contagi e con le più che probabili conseguenze economiche della pandemia?Secondo la comunità scientifica, in realtà, i numeri dell’emergenza sanitaria possono nascondere insidiosi fenomeni sotterranei. Si tratta in tal caso dei possibili effetti psicologici dovuti alla prolungata fase di quarantena. Una delle più accreditate riviste scientifiche internazionali, The Lancet, ha di recente pubblicato una revisione della letteratura esistente rispetto alle conseguenze psicologiche delle misure di quarantena. Nella review di Brooks e collaboratori sono stati presi in esame i dati provenienti dalle popolazioni di vari paesi del globo poste in quarantena durante l’epidemia di SARS del 2003, quella di Ebola del 2009, durante la pandemia di “influenza suina” del 2010, e durante l’epidemia di MERS del 2016. Eccovi un riassunto per punti dei principali risultati della rapid review di Brooks e colleghi.
#1 Quali possono essere gli effetti psicologici prevalenti della quarantena?
In generale sentimenti e tendenze che comunemente definiremmo negativi (ovvero orientati verso una flessione dell’umore e del livello di attività) prevalgono su quelli positivi. Durante la quarantena possono emergere ansia, insonnia, umore irritabile, depressione, talvolta rabbia. Ci si può sentire più stressati e nervosi, più tristi e intimoriti. Ci si può sentire meno capaci di concentrarsi, di lavorare come prima, o addirittura si può sperimentare in una certa misura il rifiuto di ritornare a lavoro. Prese nel loro insieme e valutate rispetto al loro più ampio contesto relazionale e sociale, quelle appena descritte rappresentano le più tipiche reazioni psicologiche ad un evento o (diremmo meglio) ad un’atmosfera di tipo traumatico. Durante la quarantena di fatto rinunciamo a diversi aspetti della nostra vita comune; i nostri rapporti interpersonali e lavorativi cambiano drasticamente, o si diradano; cambia la nostra vita lavorativa (talvolta definitivamente) e la nostra possibilità di guadagno; alle volte questi cambiamenti sono definitivi e drammatici (la perdita di un amico, di un parente, del lavoro); quotidianamente bisogna convivere con il timore o con la consapevolezza del rischio d’infezione. Per molto tempo, quindi, occorre rinunciare al proprio mondo così come lo si è sempre conosciuto. E quanto più un evento è sconvolgente, ci getta in una sensazione di impotenza, interrompe le nostre abituali e rassicuranti relazioni con il nostro mondo soggettivo, tanto più rischia di diventare traumatico. Questo naturalmente non vuol dire che ogni quarantena sia per tutti traumatica in maniera certa e inarrestabile. Il nostro modo di reagire a eventi stressanti è soggettivo e dipende ampiamente dal nostro carattere. Tuttavia, è chiaro che il rischio di reazioni post-traumatiche alla quarantena possa aumentare, al netto delle nostre capacità individuali di resilienza, man mano che l’isolamento sociale (che ricordiamo avviene in un più ampio contesto di minaccia alla propria e altrui incolumità) si protrae nel tempo e sottrae risorse sociali, finanziarie e via dicendo. Non è un caso quindi che nella review di Brook emerga un altro dato. Nel lungo termine (parliamo di anni addirittura) la quarantena può aumentare il rischio di sviluppare disturbi da stress post traumatico e sintomi di evitamento fobico (restrizione dei rapporti sociali e lavorativi per esempio).
#2 Ci sono caratteristiche personali che ci rendono più propensi ad accusare l’impatto psicologico della quarantena?
Secondo lo studio di Brook non è certa la relazione tra caratteristiche sociodemografiche e reazioni psicologiche negative alla quarantena. Soltanto in pochi studi è emerso che i più giovani (16-24), le persone con un più basso livello di istruzione, le persone di sesso femminile (e in particolare quelle con un figlio) tendano a soffrire di più la quarantena sul piano psicologico. Diversa è la situazione riguardante due aspetti ben precisi: salute mentale pregressa e impiego nei servizi sanitari. Coloro che presentavano disturbi psichiatrici, una volta cessate le restrizioni, hanno vissuto reazioni di rabbia e ansiose particolarmente prolungate nel tempo (dai quattro ai sei mesi). Il personale sanitario, e in particolar modo gli operatori sanitari che sono stati sottoposti a quarantena, ha presentato sintomi di stress post traumatico di gran lunga più significativi rispetto al resto della popolazione studiata. Del resto, tra gli operatori sanitari sono prevalsi vissuti ricorrenti che hanno reso più insidioso il loro impatto psicologico sulla quarantena. Oltre all’oggettivo aumento del rischio di infezione e di complicazioni, il personale sanitario si è trovato a dover affrontare sentimenti di esclusione sociale (lo stigma dell’untore), e ha sofferto psicologicamente più di altre categorie di lavoratori (sentimenti di rabbia, colpa, noia, impotenza, tristezza, solitudine, reazioni di evitamento fobico delle relazioni sociali, perdita del lavoro, consumo e dipendenza da sostanze).
#3 Quali sono le caratteristiche o le condizioni che rendono più difficile la ripresa psicologica dalla quarantena?
Coloro che a causa della quarantena hanno sofferto a livello finanziario, hanno perso il lavoro, hanno dovuto ridurre o interrompere la propria attività libero professionale, presentano un rischio marcato di distress psicologico.
In questa casistica di individui è elevata la probabilità di sviluppare disturbi psichici (stress post-traumatico e depressione) e di sperimentare elevati livelli di ansia e rabbia per periodi prolungati.
Ristabilire il precedente livello di equilibrio psicologico è particolarmente complicato anche per coloro che, sottoposti a quarantena, accusano sentimenti di stigmatizzazione o, addirittura, vengono estromessi dalla loro rete sociale a causa dell’infezione (l’esempio tipico è quello del lavoratore isolato dai colleghi a causa del suo ritiro in quarantena).
#4 Cosa si può fare per mitigare gli effetti psicologici della quarantena?
Mi concentrerò su due aspetti ben sottolineati nella review. Per mitigare l’ovvio impatto psichico dell’isolamento sociale è vitale fare in modo che le persone si sentano parte di una rete di supporto e di comunicazione. In alcuni casi di quarantena per esempio gli operatori psichiatrici hanno fornito a coloro che ne avevano più bisogno assistenza psicologica per telefono. Lo scopo era quello di includere le persone psicologicamente più fragili in una rete sociale. Può sembrare scontato questo aspetto ma non lo è per niente. La storia ci ha ben insegnato che l’isolamento sociale getta nell’ombra proprio le persone psicologicamente più vulnerabili. Nei manicomi del XIX secolo certi disturbi mentali erano il naturale esito iatrogeno della stigmatizzazione e dell’esclusione sociale. Fornire strumenti speciali e ben organizzati di intervento psico-sociale alle persone più a rischio di isolamento, stigmatizzazione, stress post-traumatico durante la quarantena (personale sanitario, pazienti psichiatrici e via dicendo) rappresenta non solo un dovere sanitario per qualsiasi società civile, ma anche una maniera intelligente di mitigare i più che prevedibili costi socio-economici di un prolungato isolamento sulla salute mentale di una popolazione. Molti esperti declamano l’impegno con cui quotidianamente tentiamo di rispettare le misure di quarantena. Si parla di venti di cambiamento, di primavera della nostra civiltà, di rinascita della nostra economia, della nostra società. Una primavera degna di questo nome dovrebbe segnare un cambio di passo decisivo nelle policy di salute mentale, specie nelle cosiddette società avanzate, il cui livello di inclusività ha lasciato spesso a desiderare. Saremo pronti ad affrontare questa nuova sfida?
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