Provare compassione: perché una cosa così semplice può diventare anche complicata?
Le nostre reazioni comuni alle vittime di traumi psicologici ci insegnano che è più semplice parlare di empatia che non dimostrarsi empatici. La ricerca scientifica ci spiega il perché.
Proviamo ad usare la nostra immaginazione per svolgere un cosiddetto “esperimento mentale”. Si pensi di osservare in due momenti differenti due diverse foto. Tutte e due le foto ritraggono sanguinosi scenari di guerra, ma in una appare al centro della scena un solo bambino indifeso e spaventato, mentre nell’altra appare un gruppo numeroso di bambini terrorizzati. Proviamo ora a riflettere sulle emozioni che ci suscitano entrambe le situazioni. Proveremmo empatia verso entrambe le fotografie? Oppure saremmo più compassionevoli verso la foto riguardante il numeroso gruppo di bambini (in ragione dell’osservazione per cui più persone sembrano soffrire più grave dovrebbe essere il motivo che ha cagionato la loro sofferenza)? La psicologia scientifica ha tentato per molto tempo di fornire una risposta a questi interrogativi riguardanti la compassione e la capacità delle persone di entrare in risonanza emotiva con le vittime di eventi tragici e sconvolgenti. In questo articolo vi presenterò alcune cose da sapere rispetto all’empatia verso il dolore umano altrui, riferendomi alle più recenti scoperte della ricerca psicologica.
#1 Quando osserviamo gli effetti di un trauma sugli altri potremmo essere meno compassionevoli di quanto vorremmo davvero
Si tratta del fenomeno psicologico noto come bias della numerosità e consiste in una vera e propria distorsione dei processi alla base del giudizio sociale. È stato molto studiato in psicologia sociale ed è emerso in numerosi studi sperimentali sulle relazioni umane. Per esempio, si è notato a più riprese che è più facile provare compassione verso l’immagine di un singolo bambino sofferente ritratto in un contesto traumatico (i.e. uno scenario di guerra) che non verso immagini simili ma ritraenti gruppi più numerosi di bambini spaventati. Questo significa che frequentemente le persone poste di fronte al singolo individuo atterrito da un trauma provano una quota di compassione che pare sproporzionata rispetto a quella che proverebbero di fronte alle vittime di una tragedia più ampia (in termini di numerosità delle vittime). Dunque, ciò significa che tutti quanti noi dovremmo dubitare che la nostra capacità di compassione verso le vittime di un trauma sia autentica piuttosto che non distorta dal bias della numerosità? In un recente studio, pubblicato sulla rivista Emotion, Lim e DeSteno si sono posti questa domanda. Così hanno cercato, attraverso diversi esperimenti di capire se vi siano anche persone resistenti a questo bias, persone capaci di provare compassione verso gli altri indipendentemente dalla gravità dell’evento traumatico che li ha colpiti.
#2 L’autentica compassione richiede una grande conoscenza del dolore vissuto in prima persona dagli altri
Nella loro ricerca i due psicologi americani hanno coinvolto circa 700 partecipanti, suddividendoli, successivamente, in due gruppi a seconda delle loro risposte a test psicologici preliminari. Chi aveva dichiarato di aver subito nella propria vita qualche tipo di evento drammatico (malattie e lesioni, lutto, catastrofe e così via) entrò nel gruppo delle persone con esperienze “altamente avverse”. Chi invece aveva dichiarato di non aver vissuto nella vita eventi traumatici venne assegnato al gruppo delle persone con esperienze “scarsamente avverse”. Successivamente tutti i partecipanti hanno letto un articolo di giornale sulle sofferenze dei bambini nella guerra del Darfur e hanno visto sia le foto di singoli bambini sia le foto di gruppi di otto bambini all’interno dello scenario di guerra africano. Quindi sono state poste loro diverse domande sui sentimenti di compassione che sentivano di aver vissuto (ad esempio "Quanta simpatia provi per questi bambini?"). Il gruppo di persone con esperienze “scarsamente avverse” ha costantemente mostrato sentimenti distorti dal bias della numerosità (più empatici verso le foto di singoli bambini che non verso quelle di gruppi di bambini). Invece il gruppo di partecipanti con esperienze “altamente avverse” non ha mostrato distorsioni nella capacità di compassione verso i bambini. Provavano compassione sia verso le foto dei singoli bambini che verso quelle dei gruppi di bambini. E infatti, in una successiva fase di analisi era anche emerso che maggiore era stato il livello di sofferenza passata (e legata a situazioni traumatiche) dei soggetti dell’esperimento, e più elevata era la loro probabilità di provare compassione nel complesso verso i bambini del Darfur.
#3 Comprendere coloro che hanno sofferto un trauma richiede la capacità di sopravvivere al loro stesso dolore
Lim e DeSteno hanno in seguito avuto una geniale intuizione. Avevano infatti notato che i soggetti con esperienze passate altamente avverse, più degli altri, credevano di poter contribuire concretamente (i.e. una donazione all’Unicef) a ridurre le sofferenze dei bambini nel Darfur. I ricercatori si sono chiesti allora se fosse possibile influenzare la capacità di compassione di tutti i partecipanti. Se si facesse in modo di convincere le persone a sentirsi capaci di aiutare le vittime di catastrofi traumatiche, si riuscirebbe a renderle più compassionevoli? Così in un successivo esperimento hanno convocato un nuovo gruppo di persone con esperienze scarsamente avverse”. Dopo averli sottoposti a test psicologici preliminari, hanno informato questi soggetti che i risultati dei test dimostravano che erano altamente empatici, capaci di aiutare gli altri e bravi nell’alleviare il loro dolore. Ciò non era necessariamente vero. Ma Lim e DeSteno erano interessati ad influenzare le credenze dei soggetti sperimentali rispetto alla loro convinzione di essere efficaci nell’aiutare il prossimo. Successivamente i soggetti dello studio (ricordiamo, questa volta erano tutte persone con un passato poco o per nulla traumatogeno) dovevano vedere le foto dei bambini del Darfur (singole foto e foto di gruppo) e dichiarare quanto si sentivano compassionevoli verso le piccole vittime. Tutti i soggetti si erano dimostrati empatici sia verso le singole foto che verso le foto di gruppo. Sorprendentemente la preliminare manipolazione delle credenze di autoefficacia dei soggetti aveva l’effetto di ridurre l’influenza del bias della numerosità sul loro atteggiamento emotivo. Secondo i due psicologi il loro studio implica che “l’essere sopravvissuti alle avversità passate porta le persone a credere che saranno efficaci nell'aiutare gli altri, il che consente loro di regolare i propri sentimenti di compassione di fronte a eventi molto difficili". È quindi più facile provare compassione verso le vittime di un trauma se non ci si lascia travolgere dal dolore che esso comporta e se ci si sente capaci di affrontarlo psicologicamente.
#4 Saper parlare alle persone traumatizzate richiede anche di sapere quando parlare
Quindi, saper sopravvivere psicologicamente ad eventi traumatici è cosa spesso vitale per coloro che li hanno dovuti subire nella propria vita. La psicoanalisi, e assieme ad essa tutti gli psicoterapeuti più esperti nell’ambito dei traumi psicologici, da anni lo sottolineano, avendo osservato e descritto da vicino cosa significhi per ognuno di noi difendersi psicologicamente da eventi sconvolgenti (incidenti gravi, abusi fisici ed emotivi, etc.). Tutti i traumi, si sa, sfidano apertamente la nostra identità psicologica. Quali che siano gli eventi che li determinano, essi creano uno strappo temporale tra un prima, in cui ci sentivamo forti, legati a qualcuno, dotati di un progetto esistenziale, autori della propria vita, e un dopo, in cui ci sentiamo espropriati di noi stessi, slegati e soli, del tutto impotenti e passivi rispetto a qualcosa di terribile (e ben più grande di noi). Talvolta, specialmente nei casi di traumi da abuso fisico, diventa così insopportabile per la persona avvicinarsi emotivamente alla propria sensazione di impotenza, al proprio ruolo di vittima, alle ferite di una vita di soprusi (spesso scaturiti proprio dalle persone più prossime) che si trova apparente ristoro nella tendenza inconscia a identificarsi con i propri aggressori. In questi casi è un po' come se una parte di noi ci dicesse: preferisco aderire all’odio che prova il mio violentatore verso di me, preferisco pensare che abbia ragione a farmi del male, che io mi merito tutto questo, piuttosto che non sentirmi una cosa impotente in una relazione senza senso: la dipendenza verso qualcuno che mi arreca sofferenza. L’esperienza traumatica dei pazienti insegna a noi psicoterapeuti che per molto tempo essi hanno avuto un profondo bisogno di allontanarsi dal loro dolore interno e che molto altro tempo ancora sarà per loro necessario prima di riappropriarsene e di affrontare i fantasmi del passato. Nella stanza di analisi con un paziente traumatizzato il silenzio può essere ben più curativo di qualche parola in più, magari cacciata a sproposito. In fondo, l’esperimento di Lim e DeSteno dimostra che, come tutte le cose umane, anche gli sforzi empatici degli uomini possono essere fallibili e possono essere guidati da motivazioni non del tutto chiare a chi le vive in prima persona. Dunque, è molto più probabile di quel che non si voglia credere scambiare la compassione con qualcosa di ben diverso da essa. E forse questo ci può far sospettare che l’empatia abbia ben più a che fare con il sapere quando parlare che non con il sapere cosa dire.
Fonti: Lim, D., & DeSteno, D. (2019). Past adversity protects against the numeracy bias in compassion. Emotion. Advance Online Publication.
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